L’intervento punta a districare la complessa querelle attributiva nata intorno ai dodici busti di Apostoli in terracotta conservati nella Cattedrale di Fiesole, per i quali sono stati spesi i nomi di Giovan Francesco Rustici, Vincenzo de’ Rossi, Francesco Camilliani e Pietro Francavilla, fino a quello di un più generico maestro di fine Cinquecento, inizi Seicento. La serie, già ritenuta per una tradizione orale, proveniente dal Convento di Vallombrosa, soppresso nel 1866, è stata posta in relazione, se pur in modo problematico, con altri tre busti raffiguranti un Cristo (Calenzano, San Donato), San Giovanni Battista e la Vergine (Firenze, San Michele e Gaetano). Il linguaggio vigorosamente espressivo delle terrecotte, dall’aria talvolta ‘caricata’, consiglia di disporne l’autografia nell’ambito di diverse botteghe fiorentine di fine Cinquecento, inizi Seicento, da quella di Valerio Cioli a quelle di Andrea di Michelangelo Ferrucci, Giovanni Caccini e Gherardo Silvani. Nuove ricerche d’archivio consentono inoltre di datare l’arrivo fiesolano delle opere all’agosto del 1790, a seguito delle soppressioni leopoldine, quando l’originaria serie, composta da quattordici busti, venne smembrata. In quella occasione dodici di essi furono acquistati per il Capitolo della Cattedrale di Fiesole che ne stabilì la collocazione sopra gli armadi della Sagrestia Vecchia, nello stesso periodo in cui il vescovo Ranieri Mancini aveva avviato una trasformazione di quel complesso ecclesiastico. Il gruppo di sculture, originariamente patinato a finto bronzo, può oggi essere ricondotto in via ipotetica a quello realizzato nel corso degli anni ottanta-novanta del secolo per la Compagnia di San Giovanni Battista dello Scalzo, ritenuto disperso. La serie, alla luce della varietà delle maestranze coinvolte, è da considerarsi una delle più rilevanti imprese della statuaria fiorentina allo scadere del Cinquecento, quando ad una più verace vena naturalistica leonardesca, declinata da Cioli e Ferrucci, si era andato affiancando lo sperimentalismo nordico della bottega di Giambologna.
Una antologia della scultura fiorentina di fine Cinquecento: la serie di Apostoli in terracotta della Cattedrale di Fiesole
Giannotti A
2022-01-01
Abstract
L’intervento punta a districare la complessa querelle attributiva nata intorno ai dodici busti di Apostoli in terracotta conservati nella Cattedrale di Fiesole, per i quali sono stati spesi i nomi di Giovan Francesco Rustici, Vincenzo de’ Rossi, Francesco Camilliani e Pietro Francavilla, fino a quello di un più generico maestro di fine Cinquecento, inizi Seicento. La serie, già ritenuta per una tradizione orale, proveniente dal Convento di Vallombrosa, soppresso nel 1866, è stata posta in relazione, se pur in modo problematico, con altri tre busti raffiguranti un Cristo (Calenzano, San Donato), San Giovanni Battista e la Vergine (Firenze, San Michele e Gaetano). Il linguaggio vigorosamente espressivo delle terrecotte, dall’aria talvolta ‘caricata’, consiglia di disporne l’autografia nell’ambito di diverse botteghe fiorentine di fine Cinquecento, inizi Seicento, da quella di Valerio Cioli a quelle di Andrea di Michelangelo Ferrucci, Giovanni Caccini e Gherardo Silvani. Nuove ricerche d’archivio consentono inoltre di datare l’arrivo fiesolano delle opere all’agosto del 1790, a seguito delle soppressioni leopoldine, quando l’originaria serie, composta da quattordici busti, venne smembrata. In quella occasione dodici di essi furono acquistati per il Capitolo della Cattedrale di Fiesole che ne stabilì la collocazione sopra gli armadi della Sagrestia Vecchia, nello stesso periodo in cui il vescovo Ranieri Mancini aveva avviato una trasformazione di quel complesso ecclesiastico. Il gruppo di sculture, originariamente patinato a finto bronzo, può oggi essere ricondotto in via ipotetica a quello realizzato nel corso degli anni ottanta-novanta del secolo per la Compagnia di San Giovanni Battista dello Scalzo, ritenuto disperso. La serie, alla luce della varietà delle maestranze coinvolte, è da considerarsi una delle più rilevanti imprese della statuaria fiorentina allo scadere del Cinquecento, quando ad una più verace vena naturalistica leonardesca, declinata da Cioli e Ferrucci, si era andato affiancando lo sperimentalismo nordico della bottega di Giambologna.File | Dimensione | Formato | |
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