Il genere proscritto: il titolo dichiara subito il motivo centrale di questo libro, e ne definisce, al tempo stesso, la strategia d’insieme. In ciascuna delle parti che compongono il volume discuto infatti, secondo strumenti e metodologie di ricerca anche diversi, l’invenzione romanzesca dei Promessi sposi, al fine di valorizzarne l’originalità e la modernità. L’idea che guida il lavoro è che la decisione manzoniana di confrontarsi con il genere proscritto operi su un doppio fronte. Da un lato agisce come ironica contrapposizione al sistema letterario ufficiale; dall’altro lato essa equivale all’impegno di riqualificare, risemantizzandolo, un tipo di scrittura fino allora screditata dalla cultura alta, ma che Manzoni a un certo punto elegge a modalità privilegiata di messa in forma del mondo e di rappresentazione della storia. In tal senso si spiega anche il sottotitolo con cui presento il libro: Manzoni e la scelta del romanzo. Un romanzo che l’autore non si trova a comporre per caso, ma che sceglie appunto di scrivere, in piena coerenza con una poetica che di continuo si pone dubbi, si sperimenta, si reinventa, e giungerà perfino al gesto radicale di rinnegarsi. All’origine di questa complessità si pone anche uno dei passaggi generalmente meno spiegati – per non dire rimossi - dalla critica manzoniana, vale a dire la decisione di cessare di scrivere tragedie per provare a scrivere un romanzo. Ne discuto nella prima parte del libro, d’impostazione più teorica, dove si ripercorrono le questioni cruciali che scandiscono la riflessione manzoniana sulle forme letterarie, e che preparano la scelta della prosa. Il raffronto tra Fermo e Lucia e I promessi sposi compiuto nella seconda parte di questo libro intende invece considerare le due opere, e valorizzarne gli elementi di originalità, trattandole come due romanzi distinti. Occorre perciò ridiscutere alcune formule riduttive, come quella che considera il primo testo un semplice abbozzo del secondo, o come la lettura di Fermo e Lucia come lavoro più sperimentale e dunque preferibile al corpus più compatto dei Promessi sposi – secondo un cortocircuito consequenziale più detto che dimostrato. Proprio il raffronto tra le prospettive testuali dei due libri rivela come i due romanzi delineino due mondi di finzione differenti, che per esempio prevedono due modelli altrettanto distinti di autorità narrativa e, di riflesso, di gestione del discorso romanzesco. Opere diverse, pertanto, in quanto offrono risposte diverse sul piano dell’invenzione. I promessi sposi si pone come uno dei testi più importanti della storia del romanzo ottocentesco, perché è uno dei libri che per primi affrontano con consapevolezza teorica, e con un uso altrettanto coerente delle strutture narrative, il problema centrale della prosa della modernità, ossia il problema dell’extralocalità: della gestione dello sguardo che si trova al di fuori della storia, e che compie una «guerra illustre» sempre più paradossale, per trattenere un significato contro la contingenza della vita particolare. Guardata attraverso la categoria dell’extralocalità, la «dicitura» romanzesca cessa di essere un problema puramente linguistico, per diventare invece una strategia complessiva di messa in prospettiva dei contenuti narrati. È la questione affrontata nei due capitoli che compongono la terza parte del volume. Il primo di essi è dedicato all’Anonimo e alle nuove funzioni di cui è investita questa figura rispetto ai modelli della tradizione precedente. Proprio attraverso l’Anonimo – e alla centralità che esso guadagna nel passaggio da Fermo e Lucia ai Promessi sposi - l’autore valorizza le risorse espressive della parola romanzesca, e concentra di continuo l’attenzione del lettore sull’«eroica fatica» compiuta dal narratore trascrittore per «rattoppare» la storia. Mentre a questo livello del lavoro mi avvalgo principalmente delle risorse della narratologia e della critica testuale, nel capitolo successivo invece ricorro agli strumenti dell’estetica della ricezione e della sociologia della letteratura per cercare di dimostrare come l’originalità dei Promessi sposi passi, oltre che dalla sua scrittura, dalle modalità di lettura costruite dal testo. Il lavoro di ricucitura ha saputo fondere in un unico corpus tanto il progetto di un’opera finalmente capace di raggiungere la moltitudine, quanto le risonanze umoristiche e più problematiche del racconto. La caducità, il tempo, il male, il rapporto tra esperienza e significato, tra storia e discorso: sono alcuni dei dubbi più forti messi in forma dal romanzo degli ultimi due secoli, e costruiscono, al tempo stesso, il filo rosso che attraversa questo volume. Il capitolo conclusivo, dedicato al rapporto tra storia e invenzione nella poetica manzoniana, riprende i passaggi più cruciali e gli esiti più paradossali di questa trama, per ribadire la posizione centrale dei Promessi sposi nella storia del romanzo europeo della modernità.

Il «genere proscritto». Manzoni e la scelta del romanzo

BROGI D
2005-01-01

Abstract

Il genere proscritto: il titolo dichiara subito il motivo centrale di questo libro, e ne definisce, al tempo stesso, la strategia d’insieme. In ciascuna delle parti che compongono il volume discuto infatti, secondo strumenti e metodologie di ricerca anche diversi, l’invenzione romanzesca dei Promessi sposi, al fine di valorizzarne l’originalità e la modernità. L’idea che guida il lavoro è che la decisione manzoniana di confrontarsi con il genere proscritto operi su un doppio fronte. Da un lato agisce come ironica contrapposizione al sistema letterario ufficiale; dall’altro lato essa equivale all’impegno di riqualificare, risemantizzandolo, un tipo di scrittura fino allora screditata dalla cultura alta, ma che Manzoni a un certo punto elegge a modalità privilegiata di messa in forma del mondo e di rappresentazione della storia. In tal senso si spiega anche il sottotitolo con cui presento il libro: Manzoni e la scelta del romanzo. Un romanzo che l’autore non si trova a comporre per caso, ma che sceglie appunto di scrivere, in piena coerenza con una poetica che di continuo si pone dubbi, si sperimenta, si reinventa, e giungerà perfino al gesto radicale di rinnegarsi. All’origine di questa complessità si pone anche uno dei passaggi generalmente meno spiegati – per non dire rimossi - dalla critica manzoniana, vale a dire la decisione di cessare di scrivere tragedie per provare a scrivere un romanzo. Ne discuto nella prima parte del libro, d’impostazione più teorica, dove si ripercorrono le questioni cruciali che scandiscono la riflessione manzoniana sulle forme letterarie, e che preparano la scelta della prosa. Il raffronto tra Fermo e Lucia e I promessi sposi compiuto nella seconda parte di questo libro intende invece considerare le due opere, e valorizzarne gli elementi di originalità, trattandole come due romanzi distinti. Occorre perciò ridiscutere alcune formule riduttive, come quella che considera il primo testo un semplice abbozzo del secondo, o come la lettura di Fermo e Lucia come lavoro più sperimentale e dunque preferibile al corpus più compatto dei Promessi sposi – secondo un cortocircuito consequenziale più detto che dimostrato. Proprio il raffronto tra le prospettive testuali dei due libri rivela come i due romanzi delineino due mondi di finzione differenti, che per esempio prevedono due modelli altrettanto distinti di autorità narrativa e, di riflesso, di gestione del discorso romanzesco. Opere diverse, pertanto, in quanto offrono risposte diverse sul piano dell’invenzione. I promessi sposi si pone come uno dei testi più importanti della storia del romanzo ottocentesco, perché è uno dei libri che per primi affrontano con consapevolezza teorica, e con un uso altrettanto coerente delle strutture narrative, il problema centrale della prosa della modernità, ossia il problema dell’extralocalità: della gestione dello sguardo che si trova al di fuori della storia, e che compie una «guerra illustre» sempre più paradossale, per trattenere un significato contro la contingenza della vita particolare. Guardata attraverso la categoria dell’extralocalità, la «dicitura» romanzesca cessa di essere un problema puramente linguistico, per diventare invece una strategia complessiva di messa in prospettiva dei contenuti narrati. È la questione affrontata nei due capitoli che compongono la terza parte del volume. Il primo di essi è dedicato all’Anonimo e alle nuove funzioni di cui è investita questa figura rispetto ai modelli della tradizione precedente. Proprio attraverso l’Anonimo – e alla centralità che esso guadagna nel passaggio da Fermo e Lucia ai Promessi sposi - l’autore valorizza le risorse espressive della parola romanzesca, e concentra di continuo l’attenzione del lettore sull’«eroica fatica» compiuta dal narratore trascrittore per «rattoppare» la storia. Mentre a questo livello del lavoro mi avvalgo principalmente delle risorse della narratologia e della critica testuale, nel capitolo successivo invece ricorro agli strumenti dell’estetica della ricezione e della sociologia della letteratura per cercare di dimostrare come l’originalità dei Promessi sposi passi, oltre che dalla sua scrittura, dalle modalità di lettura costruite dal testo. Il lavoro di ricucitura ha saputo fondere in un unico corpus tanto il progetto di un’opera finalmente capace di raggiungere la moltitudine, quanto le risonanze umoristiche e più problematiche del racconto. La caducità, il tempo, il male, il rapporto tra esperienza e significato, tra storia e discorso: sono alcuni dei dubbi più forti messi in forma dal romanzo degli ultimi due secoli, e costruiscono, al tempo stesso, il filo rosso che attraversa questo volume. Il capitolo conclusivo, dedicato al rapporto tra storia e invenzione nella poetica manzoniana, riprende i passaggi più cruciali e gli esiti più paradossali di questa trama, per ribadire la posizione centrale dei Promessi sposi nella storia del romanzo europeo della modernità.
2005
8842713880
PROMESSI SPOSI
ROMANZO
GENERI LETTERARI
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.14091/4282
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