I Cavalli di Mochi sono uno straordinario esempio di ‘patrimonializzazione’, cioè di ingresso di capolavori d’arte dell’antico regime nel patrimonio storico e artistico dell’Italia costituzionale e democratica. Già in epoca neoclassica, la revisione del giudizio critico su queste opere barocche doveva fare i conti con l’entusiasmo ‘patriottico’ con cui i piacentini guardavano ad esse. Il significato civico, e l’appartenenza al paesaggio urbano della città (sedimentatesi in una ricca fortuna critica), facevano premio sul senso dinastico delle statue, ponendo le premesse per la loro fortuna moderna. Una folta documentazione permette di ricostruire in dettaglio la genesi delle opere, sia da un punto di vista delle dinamiche della committenza dinastica e di quella civica, sia da quella del lavoro artistico, e delle vicende legate alla fusione dei bronzi. L’orgogliosa libertà di Francesco Mochi esce ben leggibile da questa nuova ricostruzione. Un rinnovato esame delle opere permette nuove acquisizioni critiche, specialmente nella lettura delle complicate, ricchissime allegorie del basamento del Ranuccio Farnese, che riacquistano una comprensibilità mai raggiunta dagli studi condotti fino ad oggi. Tutto questo è funzionale ad una ricollocazione dei Cavalli di Piacenza in una lettura nazionale della storia dell’arte seicentesca, che ne valorizzi la tessitura geografica, e la sua tensione tra centro e periferia. Unico capolavoro in bronzo di un grande marmoraro, unico capolavoro della scultura protobarocca fuori di Roma, la coppia di statue piacentine viene dunque letta nelle sue corrette premesse storiche, fin qui sottovalutate.
Capolavori fuori centro. I Cavalli di Piacenza di Francesco Mochi
	
	
	
		
		
		
		
		
	
	
	
	
	
	
	
	
		
		
		
		
		
			
			
			
		
		
		
		
			
			
				
				
					
					
					
					
						
							
						
						
					
				
				
				
				
				
				
				
				
				
				
				
			
			
		
		
		
		
	
Montanari T
			2020-01-01
Abstract
I Cavalli di Mochi sono uno straordinario esempio di ‘patrimonializzazione’, cioè di ingresso di capolavori d’arte dell’antico regime nel patrimonio storico e artistico dell’Italia costituzionale e democratica. Già in epoca neoclassica, la revisione del giudizio critico su queste opere barocche doveva fare i conti con l’entusiasmo ‘patriottico’ con cui i piacentini guardavano ad esse. Il significato civico, e l’appartenenza al paesaggio urbano della città (sedimentatesi in una ricca fortuna critica), facevano premio sul senso dinastico delle statue, ponendo le premesse per la loro fortuna moderna. Una folta documentazione permette di ricostruire in dettaglio la genesi delle opere, sia da un punto di vista delle dinamiche della committenza dinastica e di quella civica, sia da quella del lavoro artistico, e delle vicende legate alla fusione dei bronzi. L’orgogliosa libertà di Francesco Mochi esce ben leggibile da questa nuova ricostruzione. Un rinnovato esame delle opere permette nuove acquisizioni critiche, specialmente nella lettura delle complicate, ricchissime allegorie del basamento del Ranuccio Farnese, che riacquistano una comprensibilità mai raggiunta dagli studi condotti fino ad oggi. Tutto questo è funzionale ad una ricollocazione dei Cavalli di Piacenza in una lettura nazionale della storia dell’arte seicentesca, che ne valorizzi la tessitura geografica, e la sua tensione tra centro e periferia. Unico capolavoro in bronzo di un grande marmoraro, unico capolavoro della scultura protobarocca fuori di Roma, la coppia di statue piacentine viene dunque letta nelle sue corrette premesse storiche, fin qui sottovalutate.| File | Dimensione | Formato | |
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